«Lo Stato totalitario fa di tutto per controllare i pensieri e le emozioni dei propri sudditi in modo persino più completo di come ne controlla le azioni». (George Orwell)
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martedì 20 marzo 2012

MARIO MONTI O ALFANO BIS?

Pur con tutti i distinguo, posso senz'altro affermare di aver difeso finora l'operato di Monti contro tutto e tutti. Ma se questo governo dovesse cancellare il reato di concussione avra' in me il suo piu' acerrimo nemico.


L'appello de "Il Fatto Quotidiano":
«CANCELLARE LA CONCUSSIONE? MONTI NON AVALLI QUESTA PORCATA»!

L'editorialista del Fatto Massimo Fini denuncia: se il governo salverà B. - imputato nel processo Ruby per il reato che si vuole cancellare - avrà certo l'appoggio del Pdl ma perderà la fiducia degli italiani. Il governo Monti ci ha chiesto pesanti sacrifici, resisi necessari dopo trent’anni di dissennata politica clientelare e di corruzione sistematica (la sola prima Tangentopoli ci è costata 630 mila miliardi di lire, un quarto del debito pubblico) e, da ultimo, dalla drammatica inerzia di Silvio Berlusconi che, mentre l’UE chiedeva all’Italia interventi urgenti, si limitava a inviare a Strasburgo una ‘lettera di intenti’. Come l’Italia non si è liberata da sé dal fascismo, così non si è liberata da sé dal pericoloso pagliaccio. È dovuta intervenire la Merkel per farci capire che se continuavamo su quella strada facevamo la fine della Grecia. Berlusconi è stato cacciato, al suo posto è subentrato Monti. E gli italiani, pur se tartassati da tutte le parti, gli hanno dato fiducia, anche per il rigore morale, distrutto durante il quasi ventennio di berluscon


CLICCA QUI PER LEGGERE L'ARTICOLO DI MASSIMO FINI SU "IL FATTO QUOTIDIANO"

MA SENTITE ANCHE VOI QUESTO FETORE?

TUTTI PAZZI PER PENNICA, L'AVVOCATO DEI BOSS
di Giuseppe Giustolisi

Certo che non è semplice spiegare quel che succede ad Agrigento, in vista delle prossime comunali di maggio, e giurare che è tutto vero. Succede che c'è un candidato che si chiama Totò Pennica, vicino ad Angelino Alfano, ex segretario di Calogero Mannino, buon parlatore e legale di grossi capimafia della zona, che per settimane viene conteso dal Pd e dal Pdl. Alla fine Pennica opta per il Pdl, e qualche giorno fa scrive al Prefetto perché preoccupato che alcuni suoi clienti, momentaneamente liberi, possano partecipare alle sue iniziative elettorali, facendogli fare brutta figura.

E dire che il Pd un suo uomo da appoggiare ce l'avrebbe, quel Peppe Arnone, militante di Legambiente, avvocato e consigliere comunale del partito di Bersani, che da una vita mette la faccia nelle battaglie antimafia. Ma forse in questo s'è spinto un po' troppo oltre per gli equilibri di potere del centrosinistra siciliano, denunciando le collusioni dei suoi uomini più rappresentativi con la mafia e il malaffare isolano. Ed è quindi ritenuto un soggetto poco raccomandabile. Anche perché molto popolare da quelle parti. E infatti il Pd ad Agrigento ha preferito evitare le primarie, che Arnone avrebbe vinto a mani basse, forte di un sondaggio Ipsos da lui stesso commissionato che lo dà vincente su tutti gli altri possibili candidati sindaco di tutti i partiti (ben 5 punti sul sindaco uscente Marco Zambuto).

E adesso il partito di Bersani è nel caos. Angelo Capodicasa, ex presidente della Regione Siciliana, storico leader
siciliano del Pci e ora del Pd, e da sempre oggetto degli strali di Arnone sulla questione morale nel partito, non lesinava le proprie simpatie per Pennica, al punto che fino a qualche giorno fa lo avrebbe pure appoggiato. Sì perché Pennica era il candidato del Pd, di Grande Sud dell'ex viceministro Gianfranco Micciché, del Movimento per l'Autonomia di Raffaele Lombardo e di Futuro e Libertà. Poi però Pennica ha allargato l'alleanza al Pdl ed è saltato tutto. “Alfano gioca a rubamazzo”, tuonò Capodicasa. “Pennica traditore ”, gridarono quelli di Fli. Ma per Angelino Alfano, che è riuscito a mantenere l'alleanza con Grande Sud, l'invito a Capodicasa e soci rimane sempre valido. Anche per frenare la corsa di Arnone.

E a questo punto, in quella che ormai è diventata una vera e propria commedia degli orrori, tutto può succedere, come recita lo slogan elettorale di Pennica. “Tra l'avvocato delle vittime della mafia e l'avvocato dei capimafia, Capodicasa manifesta la sua netta preferenza in favore di quest'ultimo”, s'era rivolto la scorsa settimana, in una nota accorata, Arnone a Bersani quando l'accordo con Pennica era cosa fatta, sperando in uno scatto d'orgoglio del segretario Pd. Arnone, dal canto suo, tesse la tela alla sua sinistra e potrebbe provare a riproporre, da solo, il modello della foto di Vasto in formato Valle dei Templi, visto che, come lo stesso Arnone tiene a dire, “non corro con l'appoggio di Lombardo”. Finora, però, Idv e Sel, preferiscono puntare su un candidato autonomo.

E intanto mentre l'Udc ripropone il sindaco uscente Zambuto – che cinque anni fa ha mollato l'Udc e la giunta di centrodestra di cui era assessore, si candidò sostenuto da Ds, Udeur e dallo stesso Arnone (nell'ultimo periodo fortemente critico verso l'attuale giunta per i programmi disattesi) – e il Movimento per l'Autonomia di Lombardo e il Terzo Polo tutto rimangono per il momento al palo, il segretario nazionale del Pd Bersani, risulta non pervenuto. Come a Palermo, dove per la vicenda dei brogli alle primarie e la scelta definitiva sul candidato sindaco preferisce demandare il tutto alla segreteria regionale, anche su Agrigento glissa. “Chissà se Ponzio Pilato era originario di Bettola, ridente comune alle porte di Piacenza, che ha dato i natali al segretario”, chiosava Arnone nella sua nota.

RASSEGNA STAMPA (20 MARZO 2012)


LA TELA DI PENELOPE DELLE LIBERALIZZAZIONI
di Alessandro De Nicola

Diciamo la verità: il decreto liberalizzazioni del governo Monti è un'opera incompiuta. Era partito benino e poi a furia di emendamenti ispirati dalle lobby e inserimenti di norme dirigiste inventate da deputati di scarsa conoscenza delle regole dell'economia ne è uscito un po' malconcio.

Una parte era rimasta più o meno intonsa: quella sulla liberalizzazione delle attività economiche con conseguente facoltà degli esercizi commerciali di tenere aperti i battenti a qualsiasi orario. Anzi, ad essere precisi, dopo la modifica apportata dal decreto Salva Italia, la legge in vigore recita che le attività commerciali sono svolte “senza i seguenti limiti e prescrizioni: il rispetto degli orari di apertura e di chiusura, l'obbligo della chiusura domenicale e festiva, nonché quello della mezza giornata di chiusura infrasettimanale dell'esercizio”. Più chiaro di così…

Eppure, in nome dell'autonomia regionale, del sacro diritto al riposo o della famiglia, l'inchiostro non aveva ancora finito di asciugarsi sul testo del decreto che già era partito il fuoco di sbarramento delle associazioni dei commercianti, di vari enti locali e di alti prelati. Le Regioni e i Comuni, indifferentemente di destra o di sinistra, hanno cominciato a legiferare in senso restrittivo, ponendo paletti e limiti di apertura sia nel numero di ore che di domeniche, sbandierando l'illegittimità costituzionale della norma in quanto, a loro dire, la competenza legislativa sul commercio non è statale ma loro.

Fortunatamente, per ora i giudici amministrativi dei Tar hanno dato ragione a chi si è opposto a tale impostazione (la grande distribuzione) perché, a prima vista, il Parlamento nazionale ha emanato disposizioni di diritto della concorrenza in attuazione di principi comunitari, settore senza dubbio nelle mani dello Stato. Dalla Toscana al Veneto, da Padova a Milano, finora nessuno ha avuto successo nelle sue manovre ostruzionistiche.

Quali sono gli argomenti di chi non vuol lasciar decidere ai com-mercianti l'orario di apertura dei propri negozi? I sindacati dei commercianti (che come quelli dei lavoratori e delle imprese o dei professionisti si arrogano a torto la pretesa di parlare per tutti loro) paventano una strage di piccoli esercizi a favore della grande distribuzione con “città deserte e colonne di macchine che si dirigono verso i centri commerciali”. Infatti, ad esempio secondo l'assessore regionale veneto «i commercianti hanno bisogno di garanzie, ordine e disciplina», e alla fine rimarrebbero aperti solo «i negozi stranieri che vendono un po' di tutto» e questo creerebbe problemi «di ordine pubblico».
Diavoli di immigranti…

Altri invocano un “diritto al riposo”. Infine, c'è chi è soprattutto preoccupato dal valore sacrale del riposo e dalla necessità che padre, madre e figlio facciano festa insie-me.

Vediamo di capirci qualcosa. Gli argomenti teorici sono tutti a favore della liberalizzazione. Prendiamola dal punto di vista dei consumatori: è ovvio che avere la possibilità di uscire a qualsiasi ora ed ogni giorno della settimana per fare la spesa è una gran comodità per chiunque, così come succede in molti Paesi evoluti. La risorsa tempo è un bene prezioso: non solo ognuno può programmare la sua giornata nel modo che gli è più congeniale, ma l'uso efficiente del tempo genera anche un ritorno economico. Inoltre, la concorrenza può produrre maggiore scelta e minori prezzi: liberalizzare gli orari aumenta l'offerta e quindi la competizione tra operatori.

Peraltro, avere la libertà di andare a fare la spesa chi avvantaggia, i ricchi? No, la disponibilità di tempo, denaro e servitù rimedia qualsiasi inconveniente. Sono le coppie giovani dove i componenti entrambi lavorano e magari devono accompagnare i bambini a scuola, i giovani single che fanno orari impossibili nella metropoli, gli anziani che si sono dimenticati qualcosa a beneficiare della flessibilità. Non sarà un caso che nelle rilevazioni demoscopiche l'80% degli italiani reputino positiva una liberalizzazione degli orari (fonte: Ipsos): l'80%! E nel sondaggio Cermes-Bocconi alla specifica domanda il 76,2% si è dichiarato d'accordo che i negozi aperti la domenica sono un servizio per i cittadini e la percentuale di chi va in centro città la domenica molto spesso o qualche volta si accresce significativamente quando si possono fare acquisti.

Dal punto di vista dell'offerta, l'attività economica aumenterebbe per tutti, botteghe e grandi magazzini. Sempre il centro Cermes –Bocconi stima in quasi 4 miliardi in più all'anno il contributo che l'apertura liberalizzata porterebbe all'economia italiana, lo 0,25% in più di Pil (giova ricordare che nel 2011 l'Italia è cresciuta solo dello 0,2% e quest'anno avremo una recessione).

Gli studi effettuati in Gran Bretagna per il Department of Trade, d'altronde, mostrano effetti benefici della deregolamentazione delle shopping hours sull'occupazione, il tasso d'inflazione, il Pil, minor congestione del traffico (Williamson 206). Gli esercizi più piccoli avranno l'opportunità di rendersi più efficienti attraverso forme di cooperazione sugli acquisti e lo sviluppo di mercati di nicchia. Una chance per non scomparire lentamente come comunque succederebbe senza innovazione.

Quanto all'aspetto religioso della vicenda, poliziotti, infermieri, tramvieri, medici, ristoratori e gli altri milioni di persone che lavorano anche di domenica non dimostrano di essere meno attaccati alla famiglia o religiosi di altri. D'altronde, nel Paese ove la deregolamentazione è più sviluppata, gli Stati Uniti, la gente va in chiesa. Al contrario, nella ingessata Francia non mi sembra che la Chiesa stia facendo un gran proselitismo. Il diritto al riposo, invocato dal sindaco di Milano Pisapia, non è messo in discussione: l'apertura per più ore è interamente volontaria e i contratti di lavoro rimangono in vigore.

È dispiaciuto, perciò, sentire da una persona che fa della ragionevolezza e mitezza i suoi punti forti espressioni che paragonavano la liberalizzazione ad una legge ingiusta ed antidemocratica (o contro lo Stato democratico). Addirittura! Una norma approvata dal Parlamento, che amplia la libertà di scelta soprattutto per i meno abbienti e con il sostegno della popolazione diventa dunque anti-democratica per coloro i quali non la gradiscono. Ad un certo punto, a fronte delle immaginifiche elucubrazioni di Nichi Vendola, è apparso uno spiritoso sfottò che iniziava con la frase del governatore pugliese e finiva con “Niki, ma che stai a dì?”. A udire quel che si è udito verrebbe voglia di chiedere “Giuliano, ma che stai a dì?”.
L'AMACA
di Michele Serra

L'onorevole Gasparri gode fama di politico esperto. Conquistata per accumulo, perché Gasparri fa politica dall'età di circa otto anni. Ma quando parla di Rai l'esperienza gli basta appena a controllare la fuoruscita di fumo dalle orecchie, per salvare almeno le apparenze. È la sostanza che lo tradisce, e insieme a lui tradisce la disperata resistenza che il centrodestra oppone al più o meno dissimulato commissariamento che tutti gli altri partiti (perfino loro) caldeggiano come sola via d'uscita dagli orrori della lottizzazione. Le ragioni sono ovvie quanto insostenibili: durante la lunga stagione politica appena conclusa, Pdl e Lega sono riusciti a imbottire la Rai di loro uomini, quasi nessuno dei quali aveva titoli professionali per poterselo permettere (la destra ha pochi intellettuali di vaglia, e tutti accuratamente emarginati). Nello scandalo annoso della spartizione partitica, ecco lo scandalo specifico di una lottizzazione di così infimo livello da sembrare un vero e proprio boicottaggio: in quale altro Paese e in quale altra epoca, sennò, uno come Masi avrebbe potuto diventare il dominus della prima azienda culturale? Pdl e Lega sanno benissimo che, se in Rai dovesse mai prevalere il merito, per i loro uomini diventerebbe impossibile dirigere anche solo le previsioni del tempo.


SE LE RICHIESTE DELL'EUROPA SONO UNA SCUSA
di Vladimiro Zagrebelski

Non sempre ce lo chiede l’Europa. Nel dibattito politico il rinvio a una supposta richiesta proveniente da una non specificata «Europa», serve spesso a imprimere a una proposta un carattere di indiscutibile cogenza e qualche
volta ad allontanare da sé la responsabilità dell’iniziativa. Ma la formuletta del «ce lo chiede l’Europa» è equivoca se non altro perché non specifica da quale istituzione europea e con quale tipo di provvedimento, la richiesta
venga avanzata. I regolamenti dell’Unione europea si applicano direttamente, alle direttive bisogna dare attuazione, le sentenze della Corte di giustizia dell’Unione e quelle della Corte europea dei diritti dell’uomo vanno eseguite. L’altra vasta varietà di prese di posizione di organismi europei richiederebbe sempre precisazioni, anche per verificarne il diverso grado e tipo di effetto vincolante. Alcuni temi di attuale discussione e contrasto in Italia, per un verso o per altro, rientrano nel genere della (falsa) osservanza di obblighi europei.

Comincerei ricordando che la responsabilità civile diretta dei magistrati è stata introdotta dalla Camera nella legge comunitaria (che dovrebbe riguardare solo l’attuazione di direttive comunitarie) presentandola come la necessaria conseguenza di un obbligo derivante da sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione europea. Ma sarebbe bastato - e basterebbe ancora - leggere quelle sentenze per vedere che si tratta di una tesi del tutto inventata. Le due sentenze cui ci si riferisce affermano soltanto la responsabilità dello Stato per la violazione del diritto dell’Unione, anche quando la violazione sia avvenuta per un atto giudiziario. Mentre dal Consiglio d’Europa viene l’indicazione che i magistrati rispondano civilmente solo in via indiretta (nei confronti dello Stato, responsabile diretto) e solo per dolo o colpa grave. Ecco dunque un caso di falsa prospettazione dell’esistenza di un obbligo europeo, che porta a conseguenze addirittura opposte all’indirizzo proveniente dagli organi europei.

Ma anche nel caso della abolizione del delitto di concussione, che sarebbe obbligata da una richiesta «europea» nell’ambito della lotta alla corruzione, c’è un grave fraintendimento. Nel corso del monitoraggio della messa in opera della convenzione contro la corruzione nelle transazioni internazionali, l’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, che non è un’istituzione europea) ha indicato che la debolezza della repressione della corruzione deriva innanzitutto dal meccanismo della prescrizione dei reati, che troppo gravemente incide sulla capacità della magistratura di giudicare, e ha richiesto quindi all’Italia di provvedere a modificarne il regime. Analoga richiesta e messa in mora dell’Italia era già venuta dal comitato di valutazione degli Stati aderenti alla Convenzione penale contro la corruzione del Consiglio d’Europa.

Questa quindi la prima, indiscutibile indicazione che è stata data all’Italia. Eco scarsa o nulla finora! Troppi interessi in campo. Si propone invece di abolire la concussione (il delitto del pubblico ufficiale che abusando delle sue funzioni, costringe o induce altri a versar denaro o dare altra utilità) e si dice che si tratterebbe di un obbligo europeo. In realtà l’obbligo derivante dalla convenzione internazionale cui l’Italia ha aderito è quello di combattere efficacemente la corruzione (nella specie nei confronti di funzionari, ministri ecc. stranieri). La questione della concussione è stata posta perché è sembrato che troppo facilmente (tanto più se i fatti si sono svolti all’estero) gli imputati di corruzione possano difendersi dicendo di essere stati costretti o indotti a pagare per l’abuso che il pubblico ufficiale ha fatto delle sue funzioni. In tal caso è punibile chi ha ricevuto, ma non chi è stato costretto a pagare.

E il documento Ocse conclude chiedendo all’Italia di eliminare questo tipo di difesa utilizzata dai corruttori che sostengono di essere stati costretti a pagare. Non quindi l’abolizione della concussione, ma il contrasto al suo richiamo strumentale nel processo. Di questo si tratta e non di altro. La proposta in discussione prevede invece che venga eliminata la concussione dal codice penale e che, come ora avviene, sia il corrotto che il corruttore vengano puniti per il delitto di corruzione, anche quando chi ha pagato sia stato a ciò indotto dal pubblico ufficiale. La condotta di minaccia o violenza del pubblico ufficiale che abusa delle sue funzioni rientrerebbe invece nel delitto di estorsione. Ma anche nel nuovo sistema chi ha pagato il pubblico funzionario cercherà di sostenere di aver pagato perché costretto (estorsione o concussione che sia). Esattamente come ora si può fare con il delitto di
concussione, perché la prova che consente di distinguere la costrizione dalla induzione è difficile e non può che essere valutata dal giudice caso per caso. Una riforma quindi ben poco utile rispetto alle preoccupazioni avanzate dall’Ocse. Una riforma inoltre che, come tutte quelle che maneggiano le previsioni del codice penale, rischia di avere conseguenze imprevedibili nella sua applicazione nei procedimenti penali già in corso.

Ma concludendo va detto che troppo sbrigativamente si usa l’argomento europeo, talora inventandolo, tal altra fraintendendolo.

DOMANDE SENZA RISPOSTA
di Francesco Giavazzi

I problemi dell’Italia si possono osservare da due diverse prospettive: da Roma, come da tutte le capitali, appare in primo piano la politica. Ovviamente non mi riferisco ai ministri di questo governo, ma a quei politici che parlano del futuro dell’Italia e in realtà pensano solo al futuro proprio, a quale posto riusciranno a occupare nel prossimo giro della giostra romana. Si stracciano le vesti se il governo usa il voto di fiducia per evitare che alcuni provvedimenti vengano del tutto svuotati di efficacia in Parlamento: in realtà temono solo che il voto di fiducia annulli il loro potere di intermediazione fra governo e corporazioni.

Alti dirigenti dello Stato che asseriscono l’impossibilità di tagliare anche di un solo euro la spesa pubblica, difendono l’assoluta necessità dei 30 miliardi che ogni anno lo Stato trasferisce ad imprese pubbliche e private: tutti essenziali, e soprattutto quelli destinati alle aziende nei cui consigli di amministrazione essi siedono da anni. Da questo osservatorio si rischia di confondere le corporazioni (lo sono anche Confindustria e i sindacati) con le istituzioni. È un ambiente dal quale è impossibile estirpare il virus della corruzione. Un mondo nel quale diventa persino difficile nominare il direttore generale del Tesoro, incarico forse ancor più delicato di quello di Governatore della Banca d’Italia, e un nodo che il presidente del Consiglio non è ancora riuscito a sciogliere.

Diversamente si può guardare l’Italia da un’altra prospettiva: quella degli investitori che hanno acquistato il nostro debito pubblico e ogni giorno si chiedono se sia ancora un buon impiego dei risparmi che sono stati loro affidati. Essi non risiedono solo a Milano, Londra o New York, ma anche a Omaha, Nebraska, dove ha sede la società di Warren Buffet, uno dei più abili investitori al mondo, a Oslo e a Singapore, dove hanno sede grandi fondi sovrani.

Peraltro non c’è bisogno di spostarsi tanto lontano per avere una prospettiva diversa sui problemi italiani: è sufficiente recarsi a Palermo e fare una chiacchierata con Ivan Lo Bello, il presidente degli industriali siciliani. Da
anni ripete che ogni euro di spesa pubblica è un colpo alla concorrenza, agli imprenditori che cercano di farcela da soli, e invece un aiuto a quelli più abili nel percorrere i corridoi dei ministeri che a esportare. Ci si può anche chiedere come reagiranno i cittadini tedeschi quando leggeranno che l’Italia, dopo essersi ripetutamente (e a mio avviso incautamente) impegnata al pareggio di bilancio nel 2013— senza mai aggiungere «se il ciclo lo consentirà»— dovrà rivedere i propri obiettivi e spostare in là nel tempo quell’impegno.

Da questi osservatori appare chiaro che le difficoltà non stanno nei problemi da risolvere, ma nel mondo che a Roma s’interpone fra il problema e la sua soluzione. Non c’è dubbio che Mario Monti sia in assoluto la persona che meglio conosce e apprezza le preoccupazioni degli osservatori internazionali e che il premier sabato ha accusato di eccessiva impazienza. Capisco le difficoltà di fare fronte a quell’emergenza. Ma anche Prometeo per regalare il fuoco e la speranza agli uomini fu condannato al supplizio...

IL FATTO QUOTIDIANO



LA POLITICA QUALUNQUE
di Marco Politi

È impressionante: la cecità ostinata del ceto politico nei confronti dei bisogni della popolazione. Non c’è un solo partito, da destra a sinistra, in cui la maggioranza degli elettori approvi la rottamazione dell’articolo 18. Vedere l’ultima inchiesta Demos. D’altronde la Fiat è cresciuta (quando era capace di vendere auto) e le imprese straniere hanno investito in Italia per decenni con lo Statuto dei lavoratori. Però i negoziati al tavolo Fornero proseguono come se niente fosse. Il modo di trattare il tema del lavoro è emblematico. Allo smontaggio dell’art. 18 non corrisponde affatto – come veniva proclamato liricamente – la tutela dei giovani attraverso l’eliminazione dei contratti grigi, fucine di precariato. Contratti atipici e false partite Iva non saranno disboscate. Si limeranno gli aspetti più sfacciati, ma sfruttamento e precarietà sopravviveranno.

D’incanto sono spariti dall’orizzonte politico il contratto unico di Ichino per i giovani in ingresso nelle aziende e la proposta Acli sul “contratto prevalente”. Non servono all’idea meccanica e idolatrica del mercato nella sua veste esistente. Primo segnale è stata la resa agli ordini professionali e la rinuncia all’equo compenso per i tirocinanti. È solo ipocrita il “rimborso forfettario” per i giovani laureati, che affollano gli studi degli avvocati. Zero braccio di ferro sul tema da parte dei partiti così pronti a riempirsi la bocca di futuro, crescita e gioventù.

La radice del crollo di fiducia nei partiti sta qui. La classe-non-dirigente evita di trattare i problemi per come sono. Non vuole vedere che il partito maggioritario dell’astensione e del disagio non è anti-politica, ma esprime sete di politica. Non vuole sapere che la società non chiede meno Stato, ma uno Stato più presente nel promuovere lo sviluppo dei cittadini. Guai a discutere del futuro che si vuole. Anche la società civile appare più seduta che protagonista. Eppure un compito cruciale per la politica del XXI secolo esiste: rifondare lo Stato sociale, costruire intorno alla nozione di nuovo Welfare il senso del lavoro, il sostegno alla famiglia, la qualità dell’istruzione, della sanità, della cultura.

È tragico quanto i “riformisti” laici o cattolici siano privi di visione. Certe encicliche di Wojtyla o Ratzinger sono paradossalmente molto più avanzate del balbettio contemporaneo. Oltre Monti, nel 2013 serve uno scatto di creatività. Altrimenti l’Italia si terrà la qualunque.



MONITO E PULPITI
di Marco Travaglio

Da che pulpito viene la predica”, dice il vecchio adagio. Ecco, le prediche non mancano mai: quel che manca sono i pulpiti, almeno quelli credibili. L’a l t ro giorno, chiudendo le celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia, il presidente della Repubblica ha sventolato il tricolore e lanciato il suo monito quotidiano, esortando i partiti a “compor tamenti trasparenti sul piano della moralità” e a “riforme condivise”. Peccato che le due cose non possano stare insieme: per “condividere ” le riforme, bisogna coinvolgere partiti che non solo non garantiscono moralità, ma che han fatto dell’immoralità un programma di vita e di governo. Accanto a lui Schifani ridacchiava: forse, essendo indagato per mafia a Palermo, gli veniva da ridere pensando al suo pulpito. Due anni fa Napolitano e Schifani commemoravano un altro anniversario: il decennale della morte di Bottino Craxi. Il primo scriveva alla vedova deplorando “la durezza senza eguali” con cui il noto tangentaro era stato trattato. Il secondo piangeva in lui il “capro espiatorio”.

Ecco: da che pulpito chi non riesce neanche a condannare l’immoralità di un politico pluripregiudicato invoca oggi più “moralità ” in politica? Sempre a proposito di pulpiti, ecco la predica di Nicola Latorre al sindaco di Bari Michele Emiliano, che non è indagato, ma è finito nelle carte di un’inchiesta per aver accettato in dono una bottiglia di champagne e qualche cozza pelosa da un costruttore i cui parenti fanno politica nel Pd. Dice Latorre a La Stampa: “Chi si ritrova immerso nel ciclone giudiziario, arrestato o indagato, debba fare un passo indietro”. Verrebbe da dire: benvenuto nel club, meglio tardi che mai. Ma anche da domandare: questo principio, inedito in casa Pd, vale per tutti o è riservato, ad personam, a Michele Emiliano e solo ora che dà fastidio al Pd, proponendo una lista civica nazionale con De Magistris, Vendola, Di Pietro e movimenti di società civile per superare le sigle decrepite e screditate della politica?

Il sospetto sorge spontaneo, tantopiù che lo stesso Latorre nella stessa intervista accusa Emiliano di “personalizzazione della politica” per “svuotare il ruolo e le funzioni dei partiti”. E allora da che pulpito predica Latorre? Da mesi il suo spirito guida Massimo D’Alema (anche se ora i due sono in freddo) è indagato a Roma per finanziamento illecito: e non per quattro cozze pelose, ma per i voli gratis che gli offrì una compagnia aerea che finanziava la sua fondazione e pagava mazzette al responsabile Pd per il trasporto aereo (già, perché il Pd ha pure un responsabile per il trasporto aereo). La Procura ha chiesto di archiviare D’Alema perché forse non sapeva che quei voli a decine di migliaia di euro erano a sbafo, e il gip non ha ancora deciso. Ma, a prescindere dal reato, i fatti non danno un bel quadro del rapporto fra politica e affari ai vertici massimi del Pd. Latorre ha forse chiesto le dimissioni di D’Alema quando fu indagato? Non risulta.

Anche perché, se il nuovo principio fosse valso per tutti e per sempre, non solo per Emiliano e solo per oggi, nel 2007 Latorre avrebbe dovuto applicarlo a se stesso. Fu quando il gip Forleo chiese al Senato di autorizzare i pm a usare le intercettazioni del 2005 fra Latorre e alcuni furbetti del quartierino impegnati nelle scalate illegali Unipol-Bnl, Bpl-Antonveneta, Magiste-Rcs e poi condannati per reati finanziari. Latorre parlava delle scalate con Ricucci e Consorte e, se il Senato avesse autorizzato l’uso delle sue conversazioni, sarebbe stato indagato per aggiotaggio. Invece il Parlamento salvò lui e due del Pdl (e lo stesso fece il Parlamento europeo per D’Alema), così la Procura di Milano non potè indagarli. A prescindere dai reati, è più grave trescare con una banda di fuorilegge che arraffano banche e giornali, o accettare quattro cozze pelose? Ora Latorre chiederà le dimissioni di Latorre?



TRASPARENZA ZERO
Incompleti, tardivi e difficili da consultare
Così i parlamentari nascondono i propri redditi

Bisogna infilarsi nel cortile della Chiesa di Sant'Ivo alla Sapienza. Seguire il cartello che indica il Servizio Anagrafe Patrimoniale, suonare al portiere, salire al sesto piano e percorrere tutto il corridoio bardato dal tappeto rosso. Poi, prima porta a sinistra, dichiarare di essere iscritti nelle liste elettorali di un Comune italiano. Consegni un documento e finalmente il librone alto dieci centimetri è tuo. Ce ne sono solo cinque copie, però. Così, per poter consultare le dichiarazioni dei redditi dei parlamentari italiani, bisogna fare la fila. È un diritto acquisito dal 1982 ma non sono bastati trent'anni a levargli di dosso la polvere. Altro che operazione trasparenza: “Vietata qualsiasi riproduzione”.

Così, in tre a dividersi una scrivania, gli altri abbarbicati su un divanetto, giornalisti e cittadini si strappano di mano il Bollettino. E una volta conquistato, la delusione è tanta. Siamo al quarto anno dall'elezione, dunque deputati e senatori non si mettono a ripetere cose già dette. Case, auto, partecipazioni azionarie: si scrive solo se qualcosa è cambiato. Impossibile confrontare con le dichiarazioni precedenti. E nemmeno importa se nel frattempo sono passati quasi due anni. Ieri, 19 marzo 2012, erano consultabili le dichiarazioni patrimoniali del 2011, relative all'anno 2010.

Per esempio sappiamo che in quell'anno il senatore Pdl Antonio Azzollini ha comprato 5000 azioni Mediaset
e altrettante ne ha acquistate il leghista Roberto Castelli: ma quanti sono quelli che già le possedevano? E quanti
quelli che le hanno comprate l'anno dopo? Oppure: che senso ha sapere che il Pd Pietro Ichino ha venduto 20 mila azioni dell’Eni comprate nel 2009 se non so quali altre ha? O ancora: che valore ha scoprire che il Pdl Alessio Butti ha comprato un garage a Ossuccio se non conosco le sue eventuali partecipazioni in società? Va a finire che per la maggior parte dei parlamentari si conosce solo il reddito, che spesso coincide con lo stipendio della Camera o del Senato.

Pochissimi allegano le dichiarazioni dei redditi dei familiari, visto che le chiede solo l'Antitrust, per valutare se qualcuno aggira eventuali conflitti di interesse. Ci sono rare eccezioni. Per esempio il senatore Pdl Lucio Malan. Lo sa anche lui che quel modulo non è trasparente per niente. Così, aggiunge: “Per chiarezza dichiaro per intero il mio patrimonio”: 174 mila e 270 euro. Segue elenco con appartamento a Roma, automobili e azioni. Solo 240 deputati hanno messo on line il loro 730 (c'è anche il presidente Gianfranco Fini, 201.115 euro), una cinquantina i senatori che hanno scelto la strada della trasparenza via Internet (qui non c'è il presidente Renato Schifani, il Bollettino dice 225 mila 792 euro). Pare che l’abitudine abbia fatto breccia almeno tra i leader di partito. È accessibile con un clic la dichiarazione patrimoniale dell’Idv Antonio Di Pietro, 182 mila euro nel 2010.



Avvocati e medici fanno il botto
IL DOPPIO LAVORO PAGA TRA I PROFESSIONISTI
TRASPARENZA ZERO

Bruno, Bongiorno e Consolo. Poi Paniz, Ghedini e Longo. Tra i parlamentari più ricchi spiccano come al solito gli avvocati. Da Donato Bruno, patrocinante in Cassazione, con un reddito imponibile secondo solo a Silvio Berlusconi e Antonio Angelucci, pari a 1 milione e 751 mila euro a Giulia Bongiorno con 1.720.936. Ma nella top ten ci sono anche Giuseppe Consolo (Fli), con 1 milione 630 mila euro e Maurizio Paniz con 1.482.270. Scendono rispetto
all’anno scorso i guadagni di Niccolò Ghedini con 993.901 euro, che resta però sempre sopra all’altro difensore di Berlusconi, il senatore Piero Longo, che dichiara 656.292.

I PROFESSIONISTI doppiolavoristi del Parlamento non sentono la crisi, anzi. E se con la pubblicazione della dichiarazione dei redditi il problema torna all’ordine di giorno – e magari qualcuno prova a risolverlo – si fa presto a insabbiarlo. É successo l’anno scorso, quando nella manovra era previsto che per deputati e senatori con altre attività e un reddito pari o superiore al 15 per cento dell’indennità della carica parlamentare, quest’ultima venisse dimezzata. Significava cioè che un il doppiolavorista avrebbe percepito dall’incarico pubblico circa 60 mila euro anziché l’indennità intera (2700 euro netti al mese in meno). Briciole, si direbbe. In confronto al tornaconto dell’uso dei marchi di Camera e Senato nei biglietti da visita, per esempio. Ma abbastanza importanti da far saltare la norma che è stata modificata in men che non si dica. Il punto è che i parlamentari con doppio stipendio occupano quasi la metà degli scranni tra Montecitorio e Palazzo Madama. Oltre ad essere tra i più assenteisti, per poter esercitare la seconda professione (la media arriva al 37%). La palma d’oro del fannullone la vince a mani basse Antonio Gaglione, ex Pd ora al gruppo Misto, col 93,33% di assenze. Eppure Gaglione continua a percepire lo stipendio statale oltre al suo da medico, che lo porta a guadagnare in totale 579.219 euro. E mentre per i magistrati è obbligatoria l’a spettativa , non lo è per gli avvocati, la categoria più rappresentata in Parlamento insieme ai dirigenti, agli imprenditori, ai medici, ai giornalisti e ai docenti di scuole e università. “L’Italia dei Valori è stata sempre contraria ai doppi incarichi e doppi lavori – ha spiegato l’onorevole Antonio Di Pietro, in prima linea con l’Idv nella battaglia contro i professionisti in Aula – noi riteniamo incompatibile l’attività da parlamentare con altri incarichi e altre attività professionali e d’amministrazione che contribuiscono a costruire un inaccettabile conflitto d’interessi. Basta ai doppi e tripli incarichi e basta con coloro che continuano a svolgere le loro professioni pur essendo in Parlamento, come gli avvocati, i commercialisti, i lobbysti di ogni genere che fanno da deputati gli interessi loro e dei loro clienti”.

IN AMERICA, se sei un parlamentare, non puoi svolgere la professione di avvocato. In più i membri del Congresso possono percepire redditi ulteriori non superiori al 15 per cento dell’indennità parlamentare. Insomma, se l’indennità è 100 mila dollari, si può arrivare massimo a 115. Una ricerca di Antonio Merlo dell’Università della Pennsylvania, dimostra che il tasso di partecipazione si riduce mediamente dell’1% per ogni 10 mila euro di reddito extra. In Italia non è difficile da dimostrare .



LE RICCHEZZE DEGLI INDAGATI
Sono protagonisti di diverse inchieste della magistratura, anche per i costosi regali ricevuti o per gli acquisti effettuati durante il loro mandato: dalle auto di lusso agli orologi. Ancora ieri i loro redditi sono stati resi pubblici. A partire da quello del deputato Pdl Alfonso Papa, ritornato in aula dopo l’arresto a Napoli: nel 2010 ha dichiarato 125.910 euro. Il collega Nicola Cosentino lo batte con 167.226. Marco Milanese, che le inchieste della magistratura ci raccontano come affittuario dell’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti e amante di autovetture di gran marca, dichiara 268.827 euro di reddito complessivo: nel 2010 ha venduto un fabbricato a Cannes, diecimila azioni del Credito valtellinese ed è stato in possesso di una Fiat Cinquecento da aprile ad agosto del 2011. A Palazzo Madama Alberto Tedesco, considerato dall’accusa il “dominus ” delle nomine Asl in Puglia, dichiara il solo reddito da senatore (128.571 euro). L’ex sottosegretario Antonio Caliendo, invece, finito nell’inchiesta sulla P3, dichiara 308.859 euro, ha venduto un terreno a Pupicchio, vicino Nola che aveva in comproprietà con il fratello. Anche il coordinatore del Pdl Denis Verdini, all’epoca presidente e consigliere d’am ministrazione del Credito Cooperativo Fiorentino (si dimetterà nel luglio 2010) proprio a seguito dello scandalo P3, afferma di aver guadagnato solo lo stipendio da parlamentare (123.076 euro). Il senatore Marcello Dell’Utri, pochi giorni fa “salvato ” dalla Cassazione da un’accusa per concorso esterno in associazione mafiosa (la pratica è stata rispedita all’Appello), dichiara 410.225 euro. Amedeo Labocetta, il deputato Pdl indagato per favoreggiamento, da ieri nuovo coordinatore cittadino del partito a Napoli, dichiara 163.285.



PARTITI: Lo strano caso del tesoriere Lusi
Sospettano che abbia sottratto ai conti della Margherita più di 20 milioni di euro. Sicuramente vive in una villa milionaria a Genzano e per andare alle Bahamas spende 80 mila euro. Eppure Luigi Lusi, l’ex tesoriere indagato dalla Procura di Roma, nel 2010 ha dichiarato “solo” 332 mila euro e 29 centesimi, ha perfino venduto una Lancia Delta e una Mercedes ML e si è comprato una misera 500. Con il partito aveva un rapporto “fiduciario”, tanto che sempre due anni fa sono salite all’87% le quote in suo possesso della Edizioni Dlm, la società editrice del quotidiano Europa . Lui giura che le sue parole possono far crollare il centrosinistra perché i soldi del partito li hanno presi tutti. Ma a guardare le dichiarazioni dei redditi dei suoi ex compagni di partito non si trovano cifre
esorbitanti. A cominciare da Francesco Rutelli: 137.262 euro. Enzo Bianco, per esempio, nel 2010 non solo ha rottamato una Megane Scenic (e non ha acquistato nessuna nuova auto) ma ha dichiarato solo 136.609 euro, lo stipendio da senatore. Poco più per Lucio D’Ubaldo, 158.760 euro, Franco Marini: 192 mila e 341 euro, Dario Franceschini 225.854, Luigi Zanda 169.705. Lo stesso vale per l’altro partito sui cui conti sta provando a fare luce la Procura di Roma. Che fine abbiano fatto i 50 milioni di euro del finanziamento pubblico spariti non si capisce certo dalle dichiarazioni patrimoniali degli ex aennini. Il più ricco, va detto, è l’ex tesoriere, Francesco Pontone: 365 mila 646 euro. Gli altri dichiarano stipendi da parlamentari: Maurizio Gasparri (122 mila euro) è diventato comproprietario di una casa a Roma, ma l’ha ereditata. Andrea Augello: 130 mila euro. Va meglio a Ignazio La Russa, 282 mila euro. Non era di An, ma è un ex finiano Luca Barbareschi, che nel 2010 ha comprato casa a New York. In tutto il Parlamento solo in 4 (due deputati e due senatori) hanno allegato il resoconto delle spese elettorali sostenute. Uno solo parla di “contributo al partito”: è proprio un ex An, Nino Strano: nel 2010, 25 mila euro.

lunedì 19 marzo 2012

SECONDO VOI CHI VINCERA' LA PARTITA?


PDL: «CAMBIARE LA CONCUSSIONE O SALTA L'INTESA»
PD: «ALLUNGARE LA PRESCRIZIONE»
di Liana Milella - "La Repubblica"


ROMA — I principali protagonisti cominceranno a giocare in settimana la partita della legge anti-corruzione. Da una parte il Guardasigilli Paola Severino, dall'altra il consigliere giuridico di Berlusconi Niccolò Ghedini. Tutti e due avvocati. Si conoscono praticamente da sempre. In queste settimane si sono parlati, ma ben lontano da giornalisti e tv. Colloqui top secret. Nessuno dei due si “apre” a rivelazioni. Si registra solo uno scontato ottimismo. Severino conta di presentare il maxi-emendamento alla Camera entro un paio di settimane. L'avvocato del premier, sempre più assorbito dai suoi processi, non vede ostacoli a un'intesa.

NODO CONCUSSIONE
Facili gli annunci, difficili gli accordi. L'allarme della procura di Milano, che teme uno stravolgimento del processo Ruby in cui Berlusconi è accusato di concussione, è divenuto ormai protagonista del dibattito sulla legge. Se la concussione viene sostituita da altre fattispecie, dicono le toghe, il processo potrebbe finire a Monza, perché la forza di attrazione della concussione lascerebbe il posto al ben meno influente reato di prostituzione minorile. E qui la reazione del Pdl è fin troppo scontata. Netto rifiuto del «diktat» di Milano. Polemica immediata su una levata di scudi che, dicono nel Pdl, «ha intimidito il Pd» e che farebbe lasciare la concussione com'è adesso. Lo scontro è assicurato perché, dicono nel Pdl, «non possiamo accettare il principio che, siccome Berlusconi è imputato, allora bisogna fare una legge contra personam». La linea è: si va avanti, pure con la concussione, altrimenti salta il tavolo. Niente concussione? Niente legge sulla corruzione.

IMBARAZZO NEL PD
Che succede dell'emendamento Pd che prevede di scindere in tre reati la concussione (estorsione, abuso di funzione, corruzione per induzione)? Sdegnati all'ipotesi di un inciucio — abolire la concussione, per liberare Berlusconi dalla pesante accusa, per ottenere il suo pieno appoggio al governo Monti — i Pd rilanciano sulla prescrizione. Dice il responsabile Giustizia del partito Andrea Orlando: «L'emendamento resta lì dov'è adesso. Non si ritira nulla. Ma ovviamente, come dicono i regolamenti parlamentari, sarà superato dal maxi-emendamento di Severino. Che valuteremo e rispetto al quale presenteremo dei sub-emendamenti. Se Severino non presenterà una proposta sulla concussione, di certo non la faremo noi. Invece, se lei non allungherà i tempi di prescrizione, lo proporremo noi perché lo riteniamo fondamentale».

I TEMPI

La scansione temporale è determinante nella partita sull'anti-corruzione. A Milano sono convinti di chiudere il processo Ruby a novembre, con una condanna dell'ex premier. I suoi avvocati, all'opposto, sono certi che potrebbe finire in estate, addirittura a luglio, con l'assoluzione. Considerato che marzo è finito, che c'è Pasqua, che Severino ha bisogno di un paio di settimane per mettere a punto il testo, se tutto va bene, in aula alla Camera la legge passerebbe a maggio. Calcolando il dibattito in commissione e l'opportunità di calendarizzarla in aprile per ottenere i tempi contingentati a maggio. Quando è previsto lo stop delle Camere per le amministrative. Il Senato avrebbe giugno e luglio per esame e voto. Si profila l'autunno.

SCONTRO IDV-PD
Mesi infuocati, perché sull'asticella dell'anticorruzione si scontrano Di Pietro e il Pd. L'ex pm accusa la maggioranza di «non volerla combattere veramente», vede «quattro amici al bar (Monti e Abc, ndr.) che per sopravvivere politicamente limitano le intercettazioni e cancellano la concussione». Gli replica il Pd Orlando accusandolo di «fare solo propaganda».

I DIBATTITI
Corruzione al top nei dibattiti. La settimana si apre con quello del ministro dell'Interno Anna Maria Cancellieri che riunisce e addestra i prefetti e dice «la gente non ne può più e chiede un cambio di marcia». Si chiude venerdì con quello del collega della Funzione pubblica Filippo Patroni Griffi che al tavolo chiama anche il giudice costituzionale Sabino Cassese, suo predecessore esperto sul tema. In ballo c'è pure il nodo posto dal presidente della Camera Gianfranco Fini. Chiede che «stiano fermi un giro i condannati in primo grado» e che perdano il posto i pubblici funzionari definitivamente condannati.

Per chi non l'avesse letto:

http://www.giacomosalerno.blogspot.it/2012/03/ventanni-sotto-ricatto-di-un.html


domenica 18 marzo 2012

Non sono i politici che dobbiamo combattere. Chi li ha votati? Sono gli italiani la rovina dell'Italia. Un popolo di delinquenti che vota delinquenti.


AD PERSONAM (TECNICAM)
di Marco Travaglio

A sentire i politici della seconda Tangentopoli, vien quasi da rimpiangere le parole di quelli della prima. Intanto perché 20 anni fa qualcuno che chiamasse ladri i ladri ancora si trovava: a sinistra (Rete, Verdi, Prc, mezzo Pds) e a destra (Lega e Msi). Oggi il massimo che Bersani riesce a dire del suo braccio destro Penati è “l’abbiamo sospeso dal partito”. E Violante, tra un inciucio e l’altro, non trova di meglio che proporre di “separare le carriere tra giudici e giornalisti”. Così la gente non viene più a sapere nulla e i politici possono evitare di separare le loro carriere da quelle dei ladri. Intanto a destra il via libera – ovviamente finto – di Angelino Jolie alla legge anticorruzione è presentato non come un tardivo atto dovuto alla decenza, ma come una gentile concessione al quieto vivere, un estremo sacrificio sull’altare della governabilità. Da farsi ripagare in moneta sonante: abolizione delle intercettazioni e del diritto di cronaca, regalo delle frequenze a Mediaset, i soliti amici degli amici a tener ferma la Rai mentre il Biscione la mena; e soprattutto abrogazione della concussione. Cioè del processo Ruby, dove B. è imputato per concussione per induzione.

L’unica industria che tira in Italia è quella delle leggi ad personam, oggi in versione tecnica e sobria. Indovinate chi ha scritto che “la concussione per induzione è una figura sfocata e discutibile nel suo stesso fondamento”. Paniz? Pini? Scilipoti? No, una ventina di deputati Pd, tra cui la Ferranti, Andrea Orlando, il fico Fioroni e un certo onorevole Trappolino che non deve aggiungere nulla: basta il cognome. A questo trust di cervelli, che ha bruciato sul tempo Ghedini e Longo, si deve la proposta di legge che salverà lo zietto della nipote di Mubarak. Per loro la concussione è come il concorso esterno per Iacoviello: non ci crede più nessuno.

E, a ben guardare, nemmeno alla corruzione. Ieri il sedicente liberale Ostellino ha proposto sul Corriere di legalizzare le mazzette in modica quantità: “La corruzione la si combatte... legalizzando alcune transazioni che oggi si raggiungono tramite la corruzione... e autorizzando il pagamento alla luce del sole”. Che bello, non vediamo l’ora: scambi di valigette e bustarelle sulla pubblica piazza nell’ora di punta, magari direttamente a Montecitorio e al Pirellone. A proposito: Formigoni, che vive circondato da ladri e ogni giorno se ne vede portare via uno dalla forza pubblica, scrive al Pompiere della Sera che “la corruzione da noi non è per nulla un sistema”.

Che strano: gli imprenditori giurano che è proprio un sistema imperniato sui due partiti che lo sostengono: Lega e Pdl. E Nicoli Cristiani, quello con 100 mila euro nel tinello, diceva al telefono: “Comunque il Formiga sa tutto”. Ma lui non s’è mai accorto di nulla: la gente gli passa davanti con la giacca gonfia di banconote che ogni tanto escono dalle mutande, dalle orecchie, e lui niente. Mai sentito neppure un fruscìo sospetto. Fra la figura del ladro e quella del fesso, opta per la seconda. Come Rutelli, contitolare del conto margherito assieme a Lusi, ma ignaro della scomparsa di 13-20 milioni. Alla
peggio, invocheranno l’infermità mentale. O l’incapacità di intendere e volere, ma soprattutto di intendere. Il Formiga, bontà sua, concede: “Se le accuse ai consiglieri regionali si dimostrassero vere, il quadro sarebbe grave e già il fatto che emergono è motivo di inquietudine e amarezza”. Pover’uomo: non ci dorme la notte. Ed è in tante notti insonni che ha escogitato la soluzione.

Leggi anticorruzione? Pene più severe? Dimissioni degli inquisiti e dei condannati? Macché: contro le mazzette bisogna “aprire un pubblico dibattito”. Lui è fatto così: se gli rubano in casa, non chiama il 113. Apre un pubblico dibattito dal titolo “Ladri, che fare?”. La lettera del Formiga al Pompiere si chiude con una pepita d’oro : “Ho avviato una stretta collaborazione con la Procura di Milano”. In veste di fornitor.

BUFFONI ! MA NON ERA L'ARTICOLO 18 CHE FRENAVA GLI INVESTIMENTI ESTERI? CHE E' SUCCESSO ADESSO? VI SIETE RICREDUTI?



IL CALDERONE DEL MALAFFARE
di Carlo Galli

Che il presidente della Repubblica Napolitano esorti i partiti a rinnovarsi e a prendere atto dell'indifferibilità della questione morale proprio nel giorno in cui si chiudono le celebrazioni del 150° anniversario dell'Unità d'Italia, ha un significato tristemente simbolico. Un significato che rinvia a una questione che il Paese si porta dietro da quando è nato — già nell'Italietta post-unitaria era ben nota, col nome di “faccenderia”, quella che oggi chiamiamo corruzione — ; una questione che ciclicamente si pone, e che costantemente rinvia. Che il premier Monti lo stesso giorno affermi che il primo problema sollevato dai leader stranieri non è più la messa in sicurezza dei conti pubblici ma la nostra riluttanza a varare una nuova ed efficace legge anticorruzione, e che anche da questo nostro ritardo sono frenati gli investimenti esteri in Italia, significa che tutto il mondo ci sta mandando il messaggio che la corruzione è ormai oltre il livello di guardia. E mentre il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio lanciano messaggi che si echeggiano l'uno con l'altro, le cronache registrano sempre nuovi casi di corruzione — o di indagini per corruzione — , quasi a dimostrare che le voci delle istituzioni non rimbalzano nel vuoto, ma registrano una realtà fin troppo piena di scandali, troppo folta di sospetti, straripante di illegalità.

Fatta salva la presunzione d'innocenza, e le necessarie distinzioni fra le diverse gravità dei fatti e fra i diversi stili di amministrazione nelle diverse regioni d'Italia, è quasi inevitabile che all'opinione pubblica appaiano omologate le pratiche di governo locale della Lombardia e della Puglia, dell'Emilia e della Liguria (solo per parlare delle realtà locali che in questi ultimi giorni sono giunte a contendere l'onore delle cronache ad altri scandali di livello nazionale, come quello dei fondi della Margherita). E che il pesce e le cozze si confondano, in un unico calderone, con ogni altro, e ben più grave, malaffare.

Un'omologazione fatale, che non può non accrescere — semmai ce ne fosse bisogno — la delegittimazione dei partiti, e della politica in generale; e che dimostra ad abundantiam che la corruzione è un cattivo affare sia da un punto di vista economico sia da un punto di vista civile. Che, insomma, distrugge capitali d'investimento, ma anche e soprattutto quel capitale sociale e civile di fiducia reciproca fra i cittadini, e fra questi e le istituzioni, che è il patrimonio più prezioso di una democrazia e in generale delle forme politiche moderne. La cui essenza è l'impersonalità e l'imparzialità del comando legislativo e degli atti amministrativi, e il cui fine è sottrarre la vita civile all'arbitrio, all'ingiustizia, alla partigianeria, al favoritismo, e fondarla sulla prevedibilità del potere, frenato dalla legge, e sull'uguaglianza dei cittadini nella sfera pubblica.

La corruzione — in quanto è appunto il prevalere delle ragioni private su quelle pubbliche, la vittoria della famiglia sulla polis, della disuguaglianza sull'uguaglianza, del vantaggio di pochi sulla pubblica utilità — di fatto riporta la politica a una logica di scambi personali, di fedeltà private, di lealtà tribali, che sono la negazione del “pubblico”. Che può ben prevedere il compromesso alla luce del sole, la trasparenza delle transazioni tra forze politiche differenti, all'interno del quadro della legalità, ma non certo l'oscuro lavorio di mercificazione della politica, di svendita sottobanco della democrazia, in cui, alla fine, consiste la corruzione. Il cui esito, se non viene contrastata pubblicamente ed efficacemente, e sanzionata in forza di legge — di una legge che non contenga sotterfugi e regali in extremis a favore di chi ha già goduto di fin troppe leggi ad personam — , non può essere altro che la distruzione della fiducia nella politica. Un “liberi tutti” permanente, una frammentazione privatistica della vita associata, che segnerebbe, in realtà, la fine della fiducia degli italiani in se stessi.

E il trionfo di una sorta di legge della giungla, divenuta la costituzione materiale di un popolo, trasformato in un insieme di cricche, che si autogiustifica con un comodo “così fan tutti”, e che, magari, crede di salvarsi l'anima con l'invettiva antipolitica, con lo sdegno a man salva — le reazioni dell'opinione pubblica a Tangentopoli, e il successivo passaggio della maggioranza degli italiani nelle schiere di Berlusconi sono un esempio non fuori luogo di queste dinamiche — . Chi si pone il problema del dopo-Monti, del ritorno alla fisiologia di una politica che veda come protagonisti i partiti, deve anche porsi — e porre con forza — il problema della loro rilegittimazione. E dovrà anche fare della legge anti-corruzione il banco di prova di un'autentica volontà di riscossa democratica — non populista né qualunquista — contro il degrado indecente della nostra vita civile.

Qui c'è Rodi, qui salta”: un popolo di donne e di uomini liberi sa che il proprio sviluppo passa attraverso un nuovo costume, e lo esige da se stesso ma anche, e prima di tutto, da chi lo vuole rappresentare e amministrare.

VENT'ANNI SOTTO RICATTO DI UN DELINQUENTE COMUNE


RIFORMA? NO, COLPO DI SPUGNA
di Bruno Tinti

Ma quanti tipi di reato hanno commesso B&C? Ogni volta che si discute di abrogare o modificare qualche norma, salta sempre fuori che, in uno o più processi, questa gente (ma in genere B.) finirà col cavarsela per il rotto della cuffia. È successo con il falso in bilancio, con la frode fiscale, con l’interesse privato in atti d’ufficio; e adesso succede con la concussione contestata a B. nel processo Ruby.

In Italia esistono concussione e corruzione. Il primo si ha quando un pubblico ufficiale (da B. fino al bidello della scuola pubblica di Poggiofiorito) costringe o induce qualcuno a fare qualcosa che non dovrebbe fare: dargli soldi o fargli favori. Il secondo si ha quando qualcuno dà a un pubblico ufficiale soldi o gli promette favori perché questi faccia qualcosa che non dovrebbe fare. Nella concussione è punito solo il pubblico ufficiale che chiede la cosa illecita; perché – si pensa – l’altro non è in condizioni di rifiutare, subisce un ricatto. Nella corruzione sono puniti tutti e due, quello che offre soldi o favori e il pubblico ufficiale che in cambio fa quello che non deve. Non è proprio così semplice (concussione e corruzione sono reati complicati) ma qui può bastare.

Il problema sta nella concussione: che vuol dire “induce”? Certamente qualcosa di diverso da “costringe” (se avesse lo stesso significato sarebbe stato inutile scriverlo). E siccome costringere significa adoperare violenza o minaccia, ne segue che indurre vuol dire... eh, chi lo sa? La giurisprudenza si è affannata per anni e, alla fine, è saltata fuori la “concussione ambientale”, una cosa come “Lo sanno tutti che con i potenti è meglio andare d’accordo, ti possono aiutare o danneggiare; facciamo quello che chiede e poi si vedrà ”. Insomma, il caso di un pubblico ufficiale che sa che questa è la convinzione diffusa e che abusa della sua posizione chiedendo cose illecite senza violenza o minaccia; tanto – è convinto – gli saranno concesse comunque.

Se si pensa bene, però, chi si fa “indurre” a fare cose che non deve non è proprio un santerellino. Potrebbe anche dire di no; anzi dovrebbe dire di no: anzi, dice di sì perché spera in un “ritorno”: “Gli ho fatto un favore, adesso potrò chiedergli di farne uno a me”. E così in tutti i paesi civili la concussione per induzione non esiste. Quella con violenza o minaccia è una normale estorsione, aggravata perché l’ha fatta un pubblico ufficiale. E per l’altra, quella con induzione, si pensa che sia una particolare figura di corruzione, un “capisci a me; non c’è bisogno di parlare troppo, tutti e due sappiamo che oggi fai quello che ti dico e che domani...”. Quindi l’Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, ne fanno parte 34 paesi) e la Convenzione di Strasburgo hanno raccomandato di smetterla con la concussione e di riformare (migliorandola, si capisce) la norma che prevede la corruzione. Non gli sembrava bello che gente che abusa del suo ufficio perché si aspetta riconoscimenti la facesse franca.

B&C hanno fatto finta di non sentire (ci mettiamo in prigione da soli?); e oggi il governo Monti si trova con questa patata bollente tra le mani. Perché è bollente? Perché B., ma che sorpresa, è imputato di corruzione per induzione (liberate Ruby, la nipote di Mubarak, e consegnatela a Nicole Minetti; ma veramente dovremmo mandarla in comunità...; chi se ne frega, fate come vi ho detto). E, se si abroga questo reato e non si riscrive subito quello di corruzione per inserirvi anche l’ipotesi di un accordo implicito tra potente pubblico ufficiale che chiede e cittadino (o anche pubblico ufficiale piccolino) che concede senza troppi problemi, il nostro ex (fortunatamente) presidente del Consiglio, come al solito, la farà franca.

Solo che abrogare è un amen; scrivere una norma penale nuova un po’ più complicato; scriverne una fatta bene quasi impossibile. Così azzardo un suggerimento: copiate il testo di legge elaborato qualche anno fa dalla Commissione per la predisposizione di testi normativi per l’adeguamento alle convenzioni internazionali (di cui faceva parte Pier Camillo Davigo). Diceva così: “Il pubblico ufficiale che, in relazione al compimento o all’omissione di atti del suo ufficio o comunque in relazione alla sua qualità o funzione, riceve denaro o altra utilità o ne accetta la promessa è punito . . .”; e naturalmente era punito anche chi glieli dava. Una norma perfetta: metteva in relazione soldi o favori con la qualità di pubblico ufficiale; tutto qui. Proprio come è successo a Milano: B. ordina di affidare Ruby a Nicole Minetti; non ha nessun titolo per farlo ma confida nell’“induzione”; il poliziotto obbedisce; non dovrebbe, ma confida in future utilità. Tutti e due da condannare. B. a pena più grave.

Il rischio è che scrivere bene questa norma sia impossibile senza quasi. Perché il ministro Severino potrebbe anche farlo; i tempi del conflitto di interessi tra via Arenula e la Giustizia (con la G) sono finiti. Ma poi c’è il Parlamento. E lì un Paniz, uno Scilipoti, un Pini che arrivino con l’emendamento giusto, suggerito da anime pie tecnicamente preparate, votato a scrutinio segreto, salta fuori di sicuro

sabato 17 marzo 2012

L'ITALIA: LA PATRIA DEI DELINQUENTI CHE VOTANO DELINQUENTI


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NON C'E' PIU' LIMITE ALLO SCHIFO: SOLO ESPATRIANDO POTREMO SALVARE LA NOSTRA DIGNITA'


Ruby, la paura della Procura di Milano: “Processo disintegrato se cambia quella norma”
I pm temono l'ennesima legge ad personam per salvare Berlusconi

di Piero Colaprico - "La Repubblica"

MILANO — «Ma allora il processo Ruby può disintegrarsi...». È questa, nella sua semplicità, la frase che si raccoglie in Procura. La si raccoglie all'indomani del vertice tra il premier Mario Monti con i segretari dei partiti Alfano, Bersani, Casini. E per orientarsi su una materia che si presta ad interpretazioni opposte, è meglio mettere insieme, logicamente, i dati oggettivi.

PRIMO PASSAGGIO
Il processo in corso a Milano, che vede imputato Silvio Berlusconi, riguarda due reati. Uno è la concussione. C'è stato, dice l'accusa, il ricatto del pubblico ufficiale. E il risultato (il «rilascio indebito» della minorenne Karima El Mahroug a Milano) viene ottenuto da Berlusconi abusando della sua «qualità»: la supremazia del premier, che chiama a mezzanotte, «induce» un poliziotto ad ubbidirgli, nonostante gli accertamenti fossero ancora in corso. L'altro reato del processo, che riprende il 26 marzo, riguarda la «prostituzione minorile». Si è svolta ad Arcore, ma viene giudicata a Milano perché qui la «trasporta» la concussione, penalmente più importante.

SECONDO PASSAGGIO
Nella lotta alla corruzione l'Italia è considerata dagli altri Paesi europei (e non solo) «indietro». Lo dimostrano gli scandali perenni, le inchieste, gli arresti. Negli ultimi vent'anni, post «Mani pulite», sono state infatti approvate solo le leggi imposte dall'Europa (Ocse), come la 231, che estende alle aziende e agli enti la responsabilità per i reati commessi dagli amministratori. Nella vita del governo berlusconiano, a parte le leggi ad personam, sbaragliate com'era ovvio dalla Cassazione, che è stato fatto? Sono stati sfumati i contorni del falso in bilancio. E accorciati anche i termini della prescrizione. Con l'effetto non di punire, ma di salvare i presunti colpevoli. Alle raccomandazioni dell'Ocse nessuno badava. Adesso, in extremis di legislatura, d'improvviso vengono rilanciate. Come il ministro Paola Severino, esperta di diritto penale delle aziende, sa bene, in Europa l'idea vincente è di punire anche la corruzione tra privati: se due manager si mettono d'accordo per farsi favori e magari ritagliarsi una percentuale, e vengono scoperti, passano i guai. Da noi no. Sinora no. Si paga salato in Europa e nel mondo civile anche il «traffico d'influenze illecite», com'è la raccomandazione losca, l'appartenenza alla cricca: e da noi no. Il criterio base Ocse è dunque questo: le aziende «malsane vanno bastonate dai magistrati senza pietà. Ed è in quest'ottica che la concussione, cioè il ricatto del pubblico ufficiale, può sparire: perché, secondo i giuristi, può permettere all'imprenditore di farla franca. Di piangere: «Avevo paura del politico, che potevo fare?». Invece, con la riforma made in Europa, basta «pagare» e scatta il reato.

TERZO E CRUCIALE PASSAGGIO
Il Pdl ha le idee chiare: sostituire la concussione con l'estorsione (esempio classico: il «pizzo» chiesto dalla mafia ai negozi). Ma — attenzione — l'estorsione è un reato che prevede minacce e violenze. Perciò, se veniamo al concreto caso Ruby-Silvio, c'è una domanda-chiave: il premier in che modo ha ottenuto il rilascio di Ruby-Rubacuori, minorenne marocchina, frequentatrice delle notti di Arcore? Né minaccia, né violenza. Gli è bastato farsi passare da un ufficiale dei servizi segreti il poliziotto della questura, dirgli personalmente che stava inviando con urgenza una «consigliera regionale-ministeriale». Una carica inesistente, ma Nicole Minetti era già là, perché quella ragazza denunciata per furto era, nientemeno, che la nipote di un capo di stato straniero, l'egiziano Hosni Mubarak. Nella procura milanese, va detto, già da alcune settimane erano molto sorpresi (un po' sospettosi) per «lo scarso numero di domande ai testimoni da parte della difesa Berlusconi». C'era solo il pubblico ministero Antonio Sangermano a martellare, per ottenere i primi risultati. Che sono tutti — e va detto anche questo — negativi per l'ex premier: dalla descrizione della frenesia in questura dopo la telefonata alle tante testimonianze su quanto Ruby si vantasse delle sue frequentazioni, «Silvio» sopra tutti. Si sta mettendo male per l'imputato. «Ma se il Parlamento elimina la concussione, il fatto resta, ma il titolo di reato, quello che attraeva a Milano l'accusa di prostituzione, crolla. Ci resta solo — dicono al quarto piano — da rispettare la legge. E siccome vale il favor rei...». Se era la concussione a tenere a Milano l'intero processo, «è molto probabile che tutto si trasferisca per i fatti di prostituzione a Monza», sede competente sui reati di Arcore. «Visioni»? O granitiche certezze? Lo si potrà appurare (nei prossimi giorni?) quando ci sarà un testo sul quale ragionare. Quando emergerà se una nuova, ennesima, «legge ad personam» — anche grazie al lavoro sotterraneo e ubiquo dei berlusconiani, mai vinti — approda in Parlamento. Lo stesso che ha già «creduto», votando un conflitto d'attribuzione (rigettato duramente), alla barzelletta di Ruby nipote di Mubarak.





LA CORRUZIONE E LA FINE DELLA CIVILTA'

L'AMACA - Michele Serra
In un giornale radio della sera, ieri, i primi cinque o sei titoli erano tutti su casi di corruzione di politici, o sul loro coinvolgimento, a vario titolo, in affari poco limpidi, favori ricevuti da potenti, commistione opaca tra il loro ruolo pubblico e le loro amicizie private. Ovviamente ogni caso è un caso a sé, si va dal malaffare da milioni di euro al puro equivoco, dallo scandalo vero alla mezza diceria. Ma l'insieme faceva veramente impressione, e parlava, senza possibilità di equivoci, di una catastrofe etica che non può avere alcuna “soluzione giudiziaria”, perché potrebbe avere solamente una soluzione culturale: re-spingere il regalo troppo costoso (e interessato) di un potenziale vincitore di appalti non è, per un sindaco, un obbligo di legge, è un'elementare misura di igiene morale, e di autotutela. Di quell'igiene, evidentemente, si è perduta la cognizione. E non è, questo, solo un problema della classe politica. L'insieme della società italiana, sortita con sollievo da Tangentopoli così come si scampa a una guerra, ha ritenuto che molte di quelle regole fossero “moralismo” (parola tra le più abusate degli ultimi vent'anni). È stata la maniera più diretta ed efficace per non pronunciare più la parola “morale”. I risultati si vedono.

Teocrazia e oscurantismo

DIAVOLO D'UN SANTORUM
di Antonio Carlucci

NEW YORK - Rick Santorum ha risposto a muso duro e pubblicamente. «Avete visto che cosa sono capaci di fare pur di avere la strada libera in queste elezioni?», ha chiesto retoricamente ai 200 che lo ascoltavano durante un comizio in Kansas puntando il dito contro il rivale Mitt Romney che guida la corsa alla nomination del Partito repubblicano e che, dopo il Super Martedì, ha chiesto agli altri sfidanti di ritirarsi dandogli subito partita vinta: «Se il governatore Romney pensa che Dio abbia già deciso che lui è il vincitore predestinato, allora andiamo avanti così».

Rick Santorum, 53 anni, sette figli, cattolico praticante e militante, nipote di un minatore italiano emigrato, ha migliorato settimana dopo settimana il gradimento tra gli elettori e insegue Romney senza dargli tregua. Ha trovato larghi consensi soprattutto tra i blue collar della provincia, tra gli agricoltori, tra i piccoli commercianti, tra gli anti aborto e tra coloro i quali pensano che la religione debba contare nelle scelte della politica. I voti e i delegati che ha raccolto vengono da quei conservatori che non vogliono più Barack Obama alla Casa Bianca e che ritengono al tempo stesso che Romney sia troppo poco conservatore.

Con Santorum ci sono i disoccupati e i sottoccupati che ricordano il declino dell'industria manufatturiera americana, come i piccoli commercianti e imprenditori convinti che la medicina per la ripresa sia solo a base di tagli di bilancio, di pezzi di governo cancellati e di tasse ridotte per le aziende. Lo hanno seguito coloro che vedono nell'immigrazione clandestina un pericolo per il proprio posto di lavoro. Si sono accodati al suo carro coloro che hanno sempre visto nei trattati commerciali un'apertura a una concorrenza che mette in discussione la supremazia industriale americana. Lo hanno applaudito i partigiani della tesi che il riscaldamento globale non esiste e che non bisogna avere troppe regole per ridurre l'inquinamento di aria e acqua.

Il candidato alla nomination repubblicana ha collezionato un buon risultato in questi primi mesi di campagna perché ha disegnato la sua strategia mettendo in primo piano una proposta sociale in cui il totem assoluto è la famiglia, l'aborto è una linea insuperabile (tranne quando la donna è in pericolo di vita), le relazioni omosessuali sono il diavolo. La religione sembra essere l'ossessione che accompagna Santorum. È arrivato a sparare alzo zero contro un discorso del 1960 di John Kennedy sulla separazione tra Stato e chiesa che aveva il solo scopo, allora, di tranquillizzare gli americani che lui cattolico sarebbe stato un presidente che non prendeva ordini dal Vaticano. «Mi fa vomitare», ha detto il candidato repubblicano tornando a 60 anni fa per parlare del futuro degli Stati Uniti, «e ogni americano dovrebbe avere la stessa reazione di fronte a un presidente che cerca di dire alle persone di fede dovete fare quel che dice il governo».

La furia di Santorum si è abbattuta naturalmente anche contro il presidente in carica Barack Obama. In ogni campo. La riforma sanitaria? Santorum ha promesso di cancellarla. Il salvataggio del'industria automobilistica? In nome del mercato bisognava far fallire General Motors e Chrysler. La banca centrale e il suo ruolo per far uscire l'America dalla crisi? Ridimensionarla e farla tornare ai tempi in cui si occupava solo di garantire che il tasso di inflazione non schizzasse verso l'alto. Il bilancio federale? Riforma costituzionale che obbliga al pareggio e leggi che impongono una spesa pubblica non superiore al 18 per cento del prodotto interno lordo. Peccato che nella sua attività da parlamentare, sia da deputato che da senatore, Santorum abbia seguito la strada della maggior parte dei membri del Congresso, non importa se democratici o repubblicani: far affluire nel suo collegio elettorale più soldi pubblici possibile senza alcun riguardo alla qualità dei progetti.

Santorum, infine, ha mostrato di avere un'idea della società molto particolare. Soprattutto nel campo dell'educazione, tanto da attaccare frontalmente Barack Obama sulla necessità di aprire l'accesso agli studi superiori. Il presidente Obama ha esortato a trovare la strada perché tutti i giovani americani abbiano la possibilità di accedere all'università. Santorum ha avuto una rivelazione del perché tenga tanto a questo: «Ho capito perché Obama vuole mandare ogni ragazzo e ogni ragazza al college. Quelle sono fabbriche per indottrinare i giovani e sono un pericolo per la nostra società. Il 62 per cento degli studenti entrano all'università con la fede ne escono senza».

Dove Santorum abbia preso questa statistica è un mistero che forse svelerà nei prossimi mesi di campagna elettorale.

venerdì 16 marzo 2012

L'ITALIA IRRIFORMABILE: ANCHE DOPO AVER LETTO QUESTO ARTICOLO NON CREDERETE AI VOSTRI OCCHI


«A Roma dopo Alemanno non vinciamo nemmeno se candidiamo Gesù Cristo»
CHE DANNO ALEMANNO

di Emanuele Fittipaldi - L'Espresso

A Gianni Alemanno non gliene va dritta una, nemmeno per sbaglio. Sarà la sfiga, come la nevicata del secolo che ha paralizzato la città, l'incapacità sua e dei suoi uomini (dal Gran Premio di Formula Uno all'Eur alla candidatura alle Olimpiadi, non c'è mezza ciambella che gli riesca con il buco) o le inchieste dei magistrati (l'ultima è sulle mazzette intascate dai vigili urbani, ma ne sta arrivando un'altra sugli appalti dei Punti verde qualità), fatto sta che Giovanni detto Gianni, barese di nascita e capitolino d'adozione, dopo quattro anni in Campidoglio è già considerato uno dei peggiori sindaci della storia di Roma. Non solo dai denigratori e dai nemici della sinistra, ma pure nel Pdl girano ormai battute maligne. «A Roma dopo Alemanno non vinciamo nemmeno se candidiamo Gesù Cristo», è la più in voga al momento. Non c'è nulla da ridere, però. Perché la parabola di Alemanno coincide, tra il comico e il tragico, con il declino vertiginoso della città eterna.


PRENDIAMO UN MESE A CASO, FEBBRAIO 2012.
Le cronache danno l'idea plastica del fallimento dell'amministrazione nera che comanda la capitale dal 2008. Prima i 30 centimetri di neve gestiti alla Brancaleone, poi rapine, sparatorie e omicidi diventati un refrain quotidiano, poi il “no” di Monti alle Olimpiadi 2020 e l'accusa della Corte dei conti sui costi - raddoppiati - della metropolitana C. Infine il fango sugli uomini del corpo di polizia municipale, novelli estortori paragonati ai criminali del clan dei Casamonica, e i nuovi, enormi problemi di bilancio, con la richiesta affannata di liquidità al governo. Ecco: l'elenco di febbraio non è l'eccezione, ma la norma. Perché tra Parentopoli nelle municipalizzate, blocchi del traffico per l'apertura di megastore, allagamenti per pioggia e l'occupazione delle poltrone da parte di ex fascisti e raccomandati, non c'è settimana che il sindaco e la sua squadra non finiscano in prima pagina.

PARTIAMO DALL'INIZIO ALLA FINE.
Il crepuscolo di Alemanno è cominciato con lo scandalo delle assunzioni facili all'Ama e all'Atac, le società comunali che tra il 2008 e il 2009 hanno fatto centinaia di contratti “anomali” (tra cui quelli alla figlia e al figlio del caposcorta di Alemanno) a decine di parenti e fidanzate di dirigenti del centrodestra, finiti poi al vaglio della procura. Gli uomini del nuovo Dux non sembrano aver perso il vizio, e l'ultimo assunto eccellente che ha scatenato nuove polemiche si chiama Paolo Zangrillo, fratello del medico personale di Silvio Berlusconi, da settembre direttore del personale in Acea con stipendio di 300 mila euro e casa di 200 metri quadri pagata. Alemanno non ha dimenticato il suo, di medico personale: Adolfo Panfili è infatti “delegato del sindaco per i rapporti con gli enti sanitari”, mentre sua moglie Valeria Mangani - non si sa a che titolo - è stata nominata vicepresidente della spa comunale di moda Alta Roma. Al di là delle aziende partecipate, nessun ente pubblico in Italia ha assunto tanta gente come il Campidoglio targato Pdl.

«SI DEVONO RIDURRE GLI SPRECHI».
«Si devono ridurre gli sprechi. Cancelleremo consulenze, nomine e integrazioni economiche dettate da logiche politiche», giurava Gianni in campagna elettorale.“L 'Espresso” ha spulciato tutte le delibere del Comune firmate finora dalla giunta e ha scoperto che tra staff del sindaco, assessorati, segretarie e uffici stampa in meno di quattro anni sono stati assunti ben 303 esterni, tra dirigenti, funzionari e co.co.co. Spesso amici degli amici (come quelli della lobby dell'Unire di Franco Panzironi), famigli di potenti o semplici simpatizzanti del centrodestra, spesso senza competenze specifiche. Un esercito costato alla collettività, tra stipendi e oneri previdenziali, la cifra monstre di oltre 30 milioni. Alla faccia del buco in bilancio. Il recordman è Antonio Turicchi, ex direttore esecutivo scappato poi all'Alstom, che è riuscito a strappare un contrattino che pesava sui conti per quasi un milione di euro. Ma anche Umberto Broccoli, il sovrintendente ai musei noto per la sua passione radiofonica (qualche giorno fa ha letto su Radio Uno brani di un romanzo su re Artù, mago Merlino e Fata Morgana, definita «la femmina più calda e lussuriosa di tutta la Gran Bretagna») si porta a casa una busta paga più che dignitosa (Broccoli costerà, fino a tutto luglio 2012, ben 667 mila euro). Stessa cifra per i direttori “tecnici” Francesco Coccia ed Errico Stravato, impegnato nel mega progetto di abbare le 14 torri di Tor Bella Monaca.

LA SICUREZZA
Nel quartiere dove il sindaco sogna una sorta di rivoluzione urbanistica, per ora, si segnala un boom di rapine con annessa protesta dei commercianti. La sicurezza, in effetti, è uno dei tasti dolenti dell'amministrazione. Strumentalizzata nella campagna contro Francesco Rutelli, la propaganda si sta ritorcendo contro il centrodestra: secondo il presidente della Corte d'appello di Roma, Giorgio Santacroce, gli omicidi nel 2011 sono triplicati (da 20 a 60), in aumento pure tentati omicidi, rapine ed estorsioni. Un clima di violenza che ricorda gli anni Settanta, nonostante Alemanno paghi profumatamente un pool di consulenti per la sicurezza capeggiati dal generale Mario Mori, indagato per favoreggiamento alla mafia nel processo sulla mancata cattura, nel 1995, del boss Provenzano. L 'ex comandante dei Ros ha rinnovato un contratto quadriennale che costerà 606 mila euro, di poco superiore a quello dei suoi fedelissimi Mario Redditi e Giuseppe Italia che ha voluto con sé. Dalla segretaria particolare ai tanti esperti strapagati dell' “ufficio del cerimoniale”, passando per gli specialisti di agricoltura, orti urbani e Punti verdi qualità (Giovanni Monastra, della fondazione di Alemanno Nuova Italia, ha un contratto da quasi 400 mila euro), sono in tanti ad aver fatto aver fatto i soldi entrando nella squadra di Gianni. L 'ultima convocata, in ordine di tempo, è Rosella Sensi, l'ex presidente della Roma. Costretta a cedere - causa debiti - l'impero di Italpetroli a Unicredit, è stata chiamata a fare l'assessore con delega alle Olimpiadi e alla comunicazione. Stipendio di quasi 4 mila euro al mese per lei, quattro contratti per i suoi collaboratori più fidati, auto blu e sede di prestigio: l'ufficio della Sensi è la meravigliosa Casina del cardinal Bessarione del XV secolo, un capolavoro circondato da un parco all'inizio di via Appia Antica. «Il complesso monumentale», scrive la sovrintendenza, «attualmente è chiuso al pubblico in quanto sede temporanea di un Ufficio del Comune». Occupato appunto da Rosella. Che, a parte quella delle Olimpiadi già svanite, ha un'altra delega surreale, «il coordinamento del progetto Millenium». Una sorta di libro dei sogni, in cui gli uomini di Alemanno si sono sbizzarriti con promesse irrealizzabili: dalla nuova “Città dei giovani” alla “funivia tra Magliana e l'Eur”, dal risanamento di Ostia ai nuovi ponti sul Tevere (quello della “Musica”, costato 8 milioni e inaugurato mesi fa, è ancora incompleto), senza dimenticare la riduzione dell'inquinamento atmosferico (che nel frattempo è aumentato), il parco a tema “I ludi di Roma”, il “Cinecittà World”, la pedonalizzazione del centro «da fare entro cinque anni» e il raddoppio dell'aeroporto di Fiumicino.

PUBBLICIZZARE LE ATTIVITA' DEL COMUNE
Per pubblicizzare le attività del Comune e rafforzare i rapporti con la stampa (assai difficili, tanto che il sindaco vietò per giorni agli assessori di parlare con “Repubblica”), Alemanno ha poi voluto un ufficio stampa coi controfiocchi. Durante i primi 12 mesi al Campidoglio la giunta ha assunto ben 24 persone, per una spesa di 1,4 milioni. Un'enormità, si disse. Ma oggi è peggio. Alla scadenza dei contratti, infatti, tutti i giornalisti (tranne due) sono stati riconfermati e nel tempo il pacchetto di mischia è stato ingrossato con 13 nuovi arrivi. In tutto l'ufficio stampa ha contrattualizzato 35 persone, per la modica spesa di circa 3 milioni. Tra loro spicca il fedelissimo Simone Turbolente (che spera di esser promosso alla direzione dei rapporti istituzionali in Acea) costato 657 mila euro, il «responsabile dei rapporti con il mondo cattolico» Gianluca Scarnicci, buon amico del monsignor Giovanni D'Ercole (in pochi anni il suo trattamento economico è passato da 62 a 144 mila euro l'anno), e la nuova portavoce Ester Mieli, ex cronista precaria de “Il Tempo” e di “Libero”, che per due anni costerà ai romani 194 mila euro. L 'ha sponsorizzata Luigi Crespi, ex sondaggista di Berlusconi e spin doctor di Alemanno (sua l'idea di farlo fotografare mentre spala la neve). Tempi duri anche per lui: due mesi fa per la bancarotta da 40 milioni della sua Hdc è stato condannato in primo grado a sette anni di carcere e alla interdizione perpetua dai pubblici uffici. Già. Alemanno nella scelta dei collaboratori non è fortunato. In meno di quattro anni ha cambiato quattro capi di gabinetto, due vice capo di gabinetto, tre assessori al Bilancio, due all'Ambiente e due ai Trasporti (contando l'ultimo rimpasto, Roma è alla sua quinta giunta), vari presidenti dell'Atac e direttori comunali à go-go. Anche i manager di fiducia sono saltati come tappi di champagne: tra loro l'amico Panzironi (ex ad di Ama che cumulava stipendi per quasi mezzo milione l'anno), Adalberto Bertucci ex ad di Atac («Abbiamo dato l'idea di essere affamati? Può darsi», disse incredibilmente al “Corriere”), e l'ex capo di Trambus, tutti sostituiti e indagati nell'inchiesta Parentopoli. Anche quando fa campagna elettorale fuori da Roma Gianni punta sul cavallo sbagliato: Francesco Morelli, che il sindaco sponsorizzava in Calabria per le elezioni regionali, è stato arrestato pochi mesi fa per favoreggiamento alle 'ndrine.

I SEVIZI PUBBLICI
Tra promesse mancate e degrado imperante, intanto Roma va a rotoli. A parte le solite buche delle strade che nessuno riesce a tappare, l'economia langue (Confcommercio segnala la chiusura, nel 2011, di 5 mila imprese, mentre Confindustria ha parlato di un vero e proprio boom - più 13,9 per cento - di disoccupati) e le opere pubbliche restano al palo. Anche i problemi endemici della capitale sono irrisolti: secondo il IV Rapporto sulla qualità della vita dell'Agenzia per la qualità dei servizi pubblici romani, il 67 per cento dei cittadini sostiene che la situazione del traffico negli ultimi due anni è peggiorata, mentre la gestione dei mezzi pubblici (in primis metro, poi bus, tram e taxi) è giudicata molto al di sotto della sufficienza. Alemanno fa spallucce e va per la sua strada, forte dell'appoggio incondizionato del suo “cerchio magico”. Composto dal presidente della ricca Acea Giancarlo Cremonesi (eletto anche capo della Camera di commercio), dal solito Panzironi, piazzato alla Multiservizi, da Antonio Lucarelli e Riccardo Mancini. Se quest'ultimo, un tempo vicino ad Avanguardia nazionale, nonostante una condanna a un anno e nove mesi per violazione della legge sulle armi è stato messo a capo dell'Eur spa, Lucarelli è l'onnipotente capo della segreteria del sindaco. Ex portavoce dei fascisti di Forza Nuova, costa 108 mila euro l'anno e aspetta con ansia i risultati di un'inchiesta della procura di Roma sui cosiddetti “Punti verdi qualità”. Aree comunali date in gestione a imprenditori privati, che hanno avuto la possibilità di fare investimenti milionari garantiti (al 95 per cento) da fideiussioni del Comune. Un affare da centinaia di milioni, che qualche volta forse è sfuggito ai controlli: i pm ipotizzano che qualche società abbia speso per effettuare i lavori (in genere campi e strutture sportive) meno di quanto dichiarato. Il caso più eclatante riguarda lo spazio di Parco Fiorani, affidato a Lucia Mokbel, sorella di Gennaro, il capo della banda di riciclatori al centro degli scandali Fastweb e Finmeccanica: all'appello mancherebbero 6-7 milioni. A Parco Fiorani il direttore dei lavori è il marito di Lucia, Giancarlo Scarrozza. Che ha lavorato pure per la Mondo Verde srl, fondata tanti anni fa da Lucarelli (che uscì prima del 2000) insieme ai suoi cugini. Dalla procura non filtrano dettagli, ma quattro dipendenti del Comune risultano indagati: i magistrati procedono per truffa, corruzione, abuso d'ufficio e falso. Alemanno ha sempre smentito rapporti con Mokbel, ma di sicuro di camerati ne ha assunti tanti: in Atac l'ex Nar Francesco Bianco (gambizzato lo scorso gennaio) e l'ex di Terza Posizione Gianluca Ponzio; gli ex skin Mario Vattani (suo consigliere diplomatico poi diventato console in Giappone e rimosso di recente) e Stefano Andrini (ex ad di Ama servizi integrati). Loris Facchinetti, leader del movimento neopagano e paramilitare di estrema destra, collabora con il Comune a titolo gratuito; Claudio Corbolotti, assistente di Lucarelli, è stato invece arrestato nel 2004 per gli scontri durante il derby Roma-Lazio, mentre Mirko Giannotta, ammanettato nel 2003 perché accusato di rapine a banche e gioiellerie, nel 2008 è diventato capoufficio del decoro urbano del gabinetto del sindaco. Così, a causa degli scandali e della cattiva gestione della città, attorno ad Alemanno s'è fatto il vuoto politico. Gli restano vicino gli amici di una vita, qualche costruttore (su tutti Francesco Gaetano Caltagirone), gli imprenditori vincitori di qualche appalto. Ma gli ex Forza Italia gli hanno voltato le spalle, mentre i ras aennini Fabio Rampelli e Andrea Augello non lo hanno mai considerato un capo. E la manovra per allargare la maggioranza all'Udc è fallita.

«Se potesse scappare da Roma prima delle elezioni del 2013, scapperebbe a gambe levate», chiosa Massimiliano Valeriano del Pd: «Il problema è che nessuno a destra ora vuole metterci la faccia». I fascisti di Casa Pound, invece, hanno detto che candideranno un loro uomo. Il loro slogan? «Meglio Veltroni di Alemanno».

IL PAESE DELLE TENEBRE: QUANDO I COLLABORATORI DI GIUSTIZIA FANNO IL GIOCO DELLA MAFIA



I SOSPETTI DI ILDA SULLE STRAGI
di Lirio Abbate - «L'Espresso»

Diciotto anni fa aveva visto che nelle indagini sulle stragi stava accadendo qualcosa di poco chiaro. E aveva cercato di segnalarlo riservatamente al suo procuratore capo. Ma Ilda Boccassini non fu ascoltata. Oggi le ultime inchieste coordinate dal procuratore Sergio Lari fanno emergere un crogiolo di depistaggi e tradimenti di Stato che hanno segnato la morte di Paolo Borsellino e coperto la verità sull'attentato di via D'Amelio. Ci sono le accuse della vedova Borsellino, che ha descritto il marito sconvolto per avere saputo che l'allora comandante del Ros Antonio Subranni era “punciuto”, ossia uomo della mafia. E tanti misteri irrisolti, a partire dalla scomparsa dell'agenda rossa del magistrato ucciso. I pm che stanno facendo luce su quella fase oscura della storia italiana, quando le bombe di mafia scandirono il passaggio tra prima e seconda Repubblica, l'hanno chiamata a testimoniare, per capire chi avesse giocato sporco. Ma Boccassini è rimasta cauta sulle anomalie rilevate nel 1994, quando lasciò la Sicilia per tornare a Milano: «Non condividevo l'impostazione degli interrogatori e la relativa gestione dei collaboratori di giustizia». Già allora Ilda “la rossa” era un pm celebre. Aveva condotto la prima indagine sull'infiltrazione di Cosa nostra nei palazzi del potere milanese, la Duomo Connection con la squadra di carabinieri del capitano Ultimo. Le sue lacrime sulla bara di Giovanni Falcone e la denuncia di quanti nella magistratura lo avevano ostacolato erano diventate un caso nazionale. E anche la sua scelta di offrirsi “volontaria”per contribuire alle istruttorie della procura di Caltanissetta sulle stragi conquistò le prime pagine. Emersero le sue distanze dal pool guidato da Giovanni Tinebra, che poi farà carriera come direttore dei penitenziari e oggi è procuratore generale di Catania.

Boccassini si era resa conto che troppe cose non funzionavano nella gestione dei pentiti, a partire dalla collaborazione di Vincenzo Scarantino. Il quale, con accuse inventate, ha costruito false verità sulla fine di Borsellino accettate persino dalla Cassazione. Lei lo scrisse in due lettere, fino a oggi rimaste nei cassetti. La prima, inedita e inviata a Tinebra il 10 ottobre '94, mette in evidenza sbavature nelle indagini e una mancata circolazione delle informazioni tra gli inquirenti. La pm fornisce chiaramente l'impressione di aver annusato qualcosa che non va. Inserisce fra le righe anche una piccola annotazione sulle «sorprendenti dichiarazioni rese da Scarantino», e aggiunge: «Ufficialmente assunte a verbale». Ma cosa intendeva dire? Per un magistrato è obbligatorio verbalizzare, perché evidenziarlo? Su questo punto, oggi, Boccassini risponde ai pm di non avere ricordo di un fatto specifico. In quella missiva la pm appare infastidita dall'atteggiamento dei colleghi, evidenziando che è stata estromessa dalle indagini, che non è stata più avvisata di nuovi atti istruttori. Descrive uno scenario di disgregazione. Non fa accuse, anzi cerca di dare un'apparente spiegazione con il fatto che da lì a poco lascerà la Sicilia. Non vuole far ricondurre questo atteggiamento «alle scelte investigative» o alla «dissonanza delle opinioni espresse in una riunione in procura da quelle degli altri colleghi». Al procuratore fa presente una serie di punti critici delle inchieste e sottolinea la «necessità di tempestivi interrogatori» per i pentiti, «da assumere esclusivamente con le forme imposte dal codice di rito». Ancora una volta Boccassini specifica che gli interrogatori andavano fatti secondo la legge.

Perché dirlo a Tinebra? Forse non tutto era fatto secondo la legge? Ai colleghi di Caltanissetta Lari, Gozzo e Marino che oggi glielo chiedono, prima dichiara di non ricordare di aver scritto la lettera. E quando gliela mostrano risponde in modo vago che «non condivideva l'impostazione degli interrogatori e la gestione dei collaboratori». Poi spiega: «Si fa riferimento ad una riunione in procura, in occasione della quale i colleghi evidentemente non avevano condiviso le mie perplessità su Scarantino». Storie strane quelle vissute in trincea dai pm fra il 1993 e il '94, periodo che coincide con le bombe nel continente e il proseguimento della trattativa Stato-mafia. La seconda lettera la firma insieme al collega Roberto Saieva e riporta decine di punti che per loro provavano «una condotta processuale», riferita a Scarantino, «non ispirata a linearità», piene di bugie tanto che il pentito non sapeva riconoscere nemmeno in fotografia i volti dei mafiosi coinvolti nella strage, che lui accusava, confondendoli con altre persone. Le indicazioni non vengono seguite da Tinebra. La lettera è un segnale d'allarme importante: l'ultimo avviso prima che le inchieste sulle stragi cominciassero a deragliare nelle aule di Corte d'Assise. Arriva alla vigilia del processo di Capaci e Boccassini suggerisce di riconsiderare subito l'attendibilità dei pentiti, perché rinviare questi accertamenti per la pm «potrebbe avere come effetto quello di lasciare a Scarantino una via aperta verso nuove e piroettanti rivisitazioni dei fatti». Così come è poi avvenuto durante le fasi del dibattimento per via D'Amelio, dove innocenti sono stati condannati all'ergastolo e una richiesta di revisione della sentenza definitiva è stata avanzata nei mesi scorsi. Ma la “verità” di Scarantino ha permesso di nascondere mandanti ed esecutori dell'uccisione di Borsellino e della sua scorta. E lasciare nell'ombra la trattativa tra Stato e mafia che si è intrecciata con gli ultimi giorni di vita del magistrato assassinato il 19 luglio 1992.

Agli inquirenti che adesso cercano di ritrovare il filo nero delle responsabilità Boccassini ha descritto il caos di quei mesi: «Quando arrivai a Caltanissetta, c'era da organizzare un po' tutto e in particolare riordinare gli atti e coordinare le forze di polizia. La scelta, al mio arrivo, era già ca-duta, come forze di polizia, sulla Squadra mobile di Palermo, i carabinieri del Ros e la Dia, che operavano in piena armonia. Delle indagini per la strage di via D'Ame-lio si occupava la Squadra mobile di Palermo in via quasi esclusiva». Proprio sul ruolo dell'ex capo della Mo-bile, Arnaldo La Barbera che gestì la colla-borazione di Scarantino, oggi si concentra-no i sospetti. Quando nel 2009 ha infine ritrattato le sue dichiarazioni, il pentito ha detto di essere stato «costretto a farle da alcuni funzionari della polizia». Ma la Boccassini non crede che qualcosa del genere potesse sfuggire ai pm: «Le forze dell'ordine non avevano un'autonomia investigativa avulsa dal controllo del pm». E aggiunge: «Il nostro interlocutore principale era La Barbera il quale godeva della piena fiducia di tutti i colleghi; egli non si risparmiava in nulla». Poi ricorda: «La notizia che Scarantino intendeva collaborare ci fu fornita da La Barbera che a sua volta l'aveva appresa dalla polizia penitenziaria del carcere di Pianosa». Perché, chiedono i pm, Scarantino non fu messo a confronto con i pentiti Salvatore Candura e Francesco Andriotta, anche loro oggi considerati depistatori? «Non sono in grado di rispondere perché non ho trattato lo sviluppo delle indagini successive alla collaborazione di Scarantino in quanto Tinebra decise di affidare la gestio ne del pentito ad altri colleghi». ■